Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 15 giugno 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

La scoperta del nucleo endorestiforme da parte di George Paxinos in un meeting. Il nucleo, localizzato in corrispondenza del peduncolo cerebellare inferiore su una grande via che veicola al cervelletto l’input del midollo spinale e del tronco encefalico, è assente nel macaco e in tutti gli altri animali studiati, costituendo una formazione grigia esclusivamente umana esterna al neoencefalo. George Paxinos dell’Università del New South Wales a Sidney (Australia), che abbiamo fatto conoscere alla comunità neuroscientifica italiana nel 2004 in occasione della presentazione dell’Atlas of Human Brain realizzato con Mai e Assheuer, sostiene di aver sospettato l’esistenza di questo nucleo da tre decadi e ritiene che potrebbe contribuire all’unicità della nostra specie. L’identificazione certa di questo aggregato indipendente di neuroni ha richiesto la combinazione di tecniche istologiche e studio per neuroimmagini. La denominazione nucleo endorestiforme deriva da “corpi restiformi”, ossia l’antico nome dei peduncoli cerebellari, e dalla sua posizione interna a questo tratto di sostanza bianca. Il suo ruolo è ancora misterioso, anche se la collocazione fa supporre una partecipazione alla regolazione dei movimenti fini, oltre che dell’equilibrio e della postura. All’incontro tenutosi lo scorso lunedì, è stata prospettata la partecipazione del nucleo endorestiforme ai ruoli senso-motori e psichici non coscienti del cervello.

 

Storia e attualità della scoperta della neurogenesi adulta nel cervello dei mammiferi. Fred H. Gage, uno dei protagonisti della ricerca sulla neurogenesi post-natale nei mammiferi, ripercorre le tappe della scoperta e dell’evoluzione delle conoscenze sui tre siti in cui si producono nuovi neuroni nel nostro cervello: il giro dentato dell’ippocampo, la parete dei ventricoli cerebrali e il bulbo olfattivo. Dopo l’entusiasmo iniziale per una scoperta che ha rivoluzionato la neurobiologia, gli enormi ostacoli incontrati sulla via dello sfruttamento terapeutico di questa risorsa naturale hanno generato frustrazione e scoraggiamento. Gage spiega perché è importante continuare a credere e investire in questa ricerca. [Gage F. H., Science 364 (6443): 827-828, 2019].

 

Un ruolo per i neuroni scoperti lo scorso anno nella corteccia cerebrale umana. Eszter Boldog e colleghi hanno scoperto lo scorso anno un nuovo tipo di neurone inibitorio GABAergico nella corteccia del cervello umano, caratterizzato da compatte arborizzazioni e terminali assonici simili a una rosehip (rosa canina), da cui il nome di rosehip cells. (Boldog E., et al., Nature Neuroscience 21: 1185-1195, 2018). Ricordiamo che il nome italiano delle roselline selvatiche risale a Plinio il Vecchio che narrava di un soldato romano guarito dalla rabbia con un decotto di questa pianta.

Il profilo immunoistochimico dei nuovi neuroni, che non presentano omologhi murini, corrisponde ad un singolo tipo trascrittomicamente definito con specifici marker molecolari non condivisi con altre cellule. Le cellule “rosa canina” del I strato della corteccia formano giunzioni prevalentemente con i tronchi basali dei dendriti apicali dei neuroni piramidali del III strato, inibendo la retro-propagazione dei potenziali d’azione piramidali in quei microdomini dendritici. La discussione dei nostri soci ha sottolineato il ruolo di potente controllo locale dell’elaborazione dendritica distale dei neuroni piramidali della corteccia cerebrale umana.

 

Come si decide il destino delle cellule originate dalla cresta neurale. Dalla cresta neurale embrionaria originano tessuti che vanno dalle ossa craniofacciali ai neuroni periferici, passando per le cellule del sistema APUD (amine precursor uptake and decarbossilation). Soldatov e colleghi sono riusciti a definire il processo spazio-temporale che porta gli elementi precursori della cresta neurale di topo a generare le linee cellulari mature che occuperanno le specifiche sedi tessutali adulte definitive. Combinando il sequenziamento dell’RNA della singola cellula con la trascrittomica spaziale, i ricercatori hanno analizzato gli eventi spazio-temporali che portano alla definizione del percorso differenziativo per ciascun elemento multipotente: una precoce tendenza verso un’area di sviluppo è seguita da una progressione di decisioni binarie che precisa e perfeziona, poco per volta, l’identità cellulare matura. Programmi di destino coesistono in competizione fino a quando un’accresciuta sincronizzazione favorisce uno dei due, e una repressione svantaggia l’altro, causando la scelta. [Ruslan Soldatov et al. Science 364 (6444): eaas9536, June 7, 2019].

 

Come fa un mammifero che non parla a comunicare che un cibo si può mangiare. Quando un animale incontra un cibo non familiare, sembra che il suo odore insieme con un messaggio chimico proveniente dal respiro di un individuo della sua stessa specie possano indicare che sia scevro da rischi e lo si possa mangiare. In che modo ciò avvenga è rimasto finora misterioso. Michael Loureiro e colleghi hanno individuato nel topo una via monosinaptica tra due aree cerebrali, la corteccia piriforme e la corteccia prefrontale mediale, che gioca un ruolo chiave in questo processo. La corteccia piriforme codifica l’informazione olfattiva e genera un messaggio che inibisce il nucleo accumbens, inducendo immediatamente l’assunzione del cibo. Il messaggio inibitorio proveniente dalla corteccia prefrontale mediale è fortemente rinforzato dall’interazione sociale con un altro topo che emana segnali indicanti che il cibo è stato mangiato e, dunque, è sicuro. [Louriero M., et al. Science 364 (6444): 991-995, June 2019].

 

L’era del cervello come epoca della consapevolezza e della responsabilità dell’uomo verso i simili, l’ambiente e la storia. La dimensione più ampia del senso dell’Arte del Vivere è stata sviluppata quale argomento principale, o di fondo, della riflessione di quest’anno al seminario permanente della nostra società scientifica. Il riassunto delle tematiche svolte si propone qui di seguito, prima della pausa estiva, quale strumento di pensiero e vita per i prossimi mesi.

Seguendo questa volta Emanuele Severino, invece di Giovanni Reale, l’esercitazione è stata sviluppata seguendo il filo di senso che collega nella storia la filosofia antica a quella contemporanea. Aristotele riprende una celebre intuizione di Platone sull’origine della filosofia quando afferma che gli uomini sono indotti a filosofare dal thauma che li invade di fronte ad eventi della realtà di cui ignorano le cause. La parola thauma, tradotta spesso con “meraviglia”, indica uno stato d’animo che potremmo definire di “stupore attonito” di fronte a ciò che si presenta come strano, imprevedibile, orrendo o mostruoso, e che Severino riporta al “terrore provocato dall’imprevedibilità del divenire della vita”. La filosofia greca può dunque interpretarsi come il rimedio contro il terrore della vita e, in questo senso, ha costituito una radice antropologica fondamentale del pensiero occidentale. Aristotele, nello stesso passo in cui stabilisce il nesso originario tra ricerca del sapere e stato d’animo, osserva che anche il philòmythos è in qualche modo filosofo, ovvero anche colui che si limita ad interpretare facendo ricorso al mito, ossia al racconto celebrato e riconosciuto quale elemento culturale superiore all’esperienza del singolo, può considerarsi impegnato ad impiegare il pensiero per neutralizzare lo smarrimento derivante dall’imprevedibilità del divenire e dalla minaccia della fine. Se da un canto la figura del philòmythos apre uno spazio di legittimità filosofica alla religione, dall’altro la sua definizione precisa ne limita la portata: il senso mitico del mondo non attinge alla dimensione del vero che la filosofia, in quanto epistéme, ricerca con ogni mezzo di ragione, pertanto non può garantire la sensazione di stabilità suggerita dalla certezza logica cui può giungere la riflessione filosofica.

Se la prospettiva aristotelica è sufficiente nel mondo classico a confinare in un limitato spazio culturale le religioni, quali quella greca e romana fondate sull’esercizio letterario del mito, ben diversa storia sarà l’affermarsi della concezione giudaico-cristiana dell’uomo e della realtà - vissuta come sacrificio della vita presente in funzione di quella futura - che svilupperà, dal primato medievale del sapere religioso alle sintesi neoplatoniche rinascimentali, una straordinaria ricchezza di pensiero che, attraverso le vette raggiunte dalla speculazione del XVIII e XIX secolo, giungerà alle contrapposizioni radicali e alla frammentazione dei saperi tipica del Novecento.

Per compendiare in modo efficace l’aspetto che maggiormente caratterizza il pensiero nell’epoca contemporanea, Emanuele Severino impiega la frase di Nietzsche sul ruolo della filosofia: il rimedio è stato peggiore del male. L’Origine, il Senso, la Causa, il Fondamento, l’Ordine, la Legge, la Realtà immutabile e divina evocati dall’epistéme, sono solo in apparenza il rimedio contro il terrore provocato dall’imprevedibilità del divenire, perché fissandoli attentamente rivelano essi stessi un volto terrificante.

Accanto alle soluzioni nihiliste e alla nascita delle nuove filosofie della fine del secolo appena trascorso (Fisicalismo dei tipi, Fisicalismo delle occorrenze, Teoria dell’identità dello stato centrale, Funzionalismo, ecc.) si va affermando in mille diversi modi un’istanza alternativa, che in realtà costituisce la radice più antica del pensiero orientale: l’indebolimento della coscienza.

Il lavoro dell’Arte del Vivere si colloca all’estremo opposto di questa tendenza in quanto, prendendo le mosse da quanto la coscienza umana è stata in grado di sviluppare ed elaborare come sapere e dal sapere stesso che le ha dato forma, fonda nella consapevolezza di sé e del mondo circostante la responsabilità del proprio corpo e della collettività, in un esercizio ispirato a principi generali ma costantemente adattato a circostanze e condizioni particolari e personali.

Il lungo percorso compiuto dal seminario, praticamente impossibile da sintetizzare, che ha preso le mosse dalla concezione della filosofia antica quale “arte del vivere”, praticata nella realtà quotidiana in modi lontani dall’insegnamento accademico che la declina in termini di ontologia e metafisica, si è snodato lungo un filo che ha costantemente cercato delle sintesi fra l’esperienza individuale e la conoscenza intesa nel senso più ampio del termine. Così, sono stati studiati i tre scritti accreditati nella storia del pensiero di un reale valore teoretico pur essendo genuinamente autobiografici: l’Apologia di Socrate, le Confessioni di Sant’Agostino e il Discorso sul Metodo di Cartesio.

Con Socrate, infatti, ha inizio la scoperta della natura dell’uomo come psyché, ossia come capacità di intendere e volere, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Nell’Apologia di Socrate, Platone definisce una concezione di fondo che influenzerà da quell’epoca in avanti tutto il pensiero occidentale, costituendo la base per l’incontro con la visione cristiana dell’uomo nel neoplatonismo: “Socrate presenta la cura dell’anima come il nucleo principale del suo messaggio etico, e quindi come il nucleo essenziale del suo pensiero filosofico”[1]. L’approccio all’intero dell’essere che è costituito dall’anima, prima ancora che dalle membra in azione (schema) e dalla fisicità che rimane dopo la morte (soma), è insegnato paradigmaticamente da Platone nel Carmide, e rappresenta il primo nucleo concettuale della “wholistic medicine” propugnata ai nostri giorni da Linda Faye Lehman e sviluppata grazie alla conoscenza neuroscientifica del cervello umano.

Un approdo della riflessione seminariale condotta in questi anni è costituito da una concezione della coscienza quale dimensione funzionale privilegiata della psiche umana, in netta controtendenza rispetto al riduzionismo imperante che attribuisce agli automatismi neurali le proprietà intrinseche di volizione e scelta.

Gli argomenti affrontati a questo punto dell’incontro possono facilmente essere compresi ripercorrendo lo svolgimento proposto all’inizio di quest’anno:

«La volontà quale strumento dell’autodeterminazione, dalle intuizioni di Seneca alla conoscenza neuroscientifica. In una realtà in cui la rete “multiversa” di scambi comunicativi è la regola, è sempre difficile rintracciare l’origine degli atteggiamenti mentali e degli orientamenti diffusi che si affermano nelle società contemporanee. Ci sembra, tuttavia, per l’indebolimento della concezione del potere di autodeterminazione dell’uomo, legato alla responsabilità individuale derivata dalla soggettività cosciente, di poter individuare l’origine di due contributi, il cui peso assoluto e relativo, non sappiamo stimare.

Il primo avrebbe avuto origine dove la psicoanalisi – come è accaduto in Francia negli ultimi decenni del Novecento – è diventata un’antropologia: alcune correnti di pensiero hanno sviluppato, su un malinteso senso dell’inconscio quale dimensione in grado di condizionare l’Io in maniera assoluta e inevitabile, la convinzione che la chiave dell’agire umano risieda nei processi psichici profondi, e che l’attività cosciente sia prevalentemente relegata alla costruzione di giustificazioni razionali e plausibili di quanto in realtà sarebbe già stato determinato dalle spinte pulsionali dell’Es e, in parte, dalle esigenze superegoiche.

Il secondo avrebbe avuto origine presso quella parte della comunità scientifica, bene rappresentata negli USA, che ha abbracciato la tesi del determinismo biologico: le decisioni esistenziali e morali sarebbero nella sostanza, e in prevalenza, una diretta conseguenza della genetica o, al massimo, di modulazioni epigenetiche indotte dall’esperienza.

Appare evidente che queste due visioni, distinte e teoreticamente distanti, risultino convergenti nell’espropriare l’Io cosciente dal ruolo di protagonista e responsabile di un agire coerente con la concezione dell’uomo e del mondo di ciascuno.

Proprio alla luce di questo aspetto della “crisi contemporanea del soggetto” il coraggioso ritorno ad una centralità della coscienza e ad un ruolo di primo piano della volontà, prendendo le mosse da Seneca nel nostro seminario sull’Arte del Vivere, suona come una sfida al comodo conformismo con il pensiero dominante che acriticamente eredita le macerie del soggetto del Novecento.

L’esercitazione è stata svolta adottando quale presupposto l’esistenza del libero arbitrio, e considerando la capacità di autodeterminazione come una potenziale risorsa psicoadattativa. Questa tesi, che consente paralleli e accostamenti fra il pensiero filosofico di Seneca e la nostra concezione di una coscienza attiva ed efficace – per dirla con Edelman – nel contribuire a determinare il comportamento del soggetto, trae origine dal un incontro di studio tenuto nel 2006: La volontà, dalla Stoa alle neuroscienze” (Cfr. Note e Notizie 15-04-06 La Volontà: da Seneca alle Neuroscienze). I contenuti di quell’incontro sono stati impiegati come indice tematico per il lavoro attuale.

Prendendo le mosse dall’analisi della facoltà che consente all’uomo di esprimere una determinazione coerente con i propri scopi e principi, anche se talora in contrasto con le spinte istintuali, il filosofo di Cordova giunge a compiere osservazioni interessanti sulla natura stessa della volontà. Velle non discitur: la volontà non si impara, affermava Seneca, il quale impiegava talvolta il termine voluntas con un significato vicino a quello che le moderne neuroscienze attribuiscono alle sue componenti costitutive non coscienti. In questa concezione la volontà non si identifica con l’intenzionalità cosciente che la esprime, ma con un processo più profondo del quale non sembra esservi traccia nella consapevolezza esecutiva: “Nessuno può dire quale sia l’origine della sua volontà” (Seneca, Epist., 37, 5).

La riflessione, sviluppata più di dodici anni fa, aveva preso le mosse dal confronto fra le tesi contrapposte di due noti studiosi, ossia Pohlenz e Grimal, dimostrando la fondatezza delle argomentazioni del primo, che riconosce originalità alla concezione della volontà di Seneca rispetto a quella dell’antica Stoa. Tuttavia, dall’acuta descrizione che Grimal propone del pensiero stoico si è estratto un passo che consente un suggestivo accostamento con la prospettiva neuroscientifica attuale: “…l’esistenza di un moto istintivo dell’anima, uno slancio (impetus, hormé), che non è, in sé stesso, razionale, ma che è una manifestazione primaria dell’essere. Lo studio di questo slancio originario costituisce per gli stoici una delle parti principali della filosofia morale, e il compito della ragione è di agire su questo slancio, irrazionale in sé, per trasformarlo in volontà cosciente, aggiungendogli il consenso (adsensio)” (P. Grimal, Seneca, p. 16, Garzanti, Milano 1992).

I processi cerebrali che sostengono la propensione ad agire, cioè la motivazione, e la spinta all’azione, ossia la conazione, possono accostarsi all’hormé dell’antica Stoa e di Seneca.

Giovanni Reale osserva che nella vecchia Stoa non c’è traccia di una volontà intesa come facoltà determinante e distinta dalla ragione e, sebbene questa scuola riconosca all’origine dell’azione una disposizione d’animo, riconduce, poi, questa disposizione alla conoscenza, secondo la più diffusa concezione intellettualistica dell’epoca. Lucio Anneo Seneca rompe lo schema dell’intellettualismo ellenico proprio introducendo il concetto di voluntas.

“Il termine latino voluntas non ha nella lingua greca un corrispettivo che ricopra la stessa area concettuale, ma esprime un’esperienza etica nuova e di differente calibratura” (G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, p. 143, Bompiani, Milano 2004).

L’originalità del concetto di volontà in Seneca e la continuità con il pensiero degli antichi stoici sono bene illustrate da Giovanni Reale, ma già studiate in passato da Max Pohlenz, dal quale è stato tratto un altro spunto interessante: “Seneca, come non l’ha fatto per la coscienza, non inserisce la volontà in un sistema psicologico” (si veda: Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1967, alle pagine 89-90 del secondo volume e, in particolare, la nota 56 di pagina 90).

L’hormé in una prospettiva neurobiologica e l’inserimento della volontà in un sistema psicologico sono stati i due temi più discussi». [Cfr. Note e Notizie 26-01-19 Notule].

Ritornando allo studio della coscienza quale reale dimensione funzionale del cervello – effective, per dirla con Gerald Edelman – e massima espressione dello psichismo umano, si è giunti in questi giorni a concordare circa il fatto che, se questa può essere definita “l’era del cervello”, dovrebbe essere vissuta come epoca della consapevolezza e della responsabilità dell’uomo verso i simili, l’ambiente e la storia.

 

Notule

BM&L-15 giugno 2019

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[1] Giovanni Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, p. 10, Bompiani, Milano 2004.